Questo articolo prende ispirazione dalla filosofia orientale, in particolar modo da quella buddista e da quella induista. I concetti fondamentali alla base della nostra trattazione sono due: Samsara e Moksha. Entrambe le parole sono di origine sanscrita e rientrano nell’ambito della ricerca spirituale. Mentre il primo concetto, quello di Samsara, è abbastanza conosciuto anche in occidente, il secondo è ancora poco diffuso e decisamente più misterioso per via delle tante interpretazioni che può assumere.
Samsara fa riferimento al ciclo della reincarnazione. Secondo tale visione, noi esseri umani siamo entità immateriali e immortali che si incarnano dentro un corpo fisico per fare determinate esperienze. Una volta entrate all’interno di questa dinamica, le anime restano in qualche modo bloccate all’interno della ruota del Samsara e, in seguito all’abbandono del corpo materiale (la morte), ricominciano una nuova vita terrena dentro un corpo differente. Il processo va avanti all’infinito.
Ecco che si arriva così al concetto di Moksha, o liberazione spirituale. Il problema fondamentale alla base della reincarnazione consiste nel fatto che le anime, quando lasciano il vecchio corpo e ne assumono uno nuovo, perdono tutti i ricordi della vita precedente (o delle vite precedenti). A questo punto sorge un dubbio: che senso può avere tutto ciò? Se è vero che le anime vengono sulla Terra per fare determinate esperienze, e dunque imparare qualcosa, per poi dimenticare tutto, c’è quanto meno qualcosa di strano in questo fenomeno.
Alla base del concetto di Moksha risiede l’idea che il Samsara sia fondamentalmente una trappola per le anime. Qualcuno o qualcosa sembrerebbe volerle mantenere in uno stato di ignoranza, spingendole a tornare continuamente sul pianeta Terra sotto forma di entità biologiche estremamente limitate dal punto di vista coscienziale. Qui si apre un ventaglio pressoché interminabile di potenziali interpretazioni, dalle più complottistiche alle più banali. C’è chi non ci vede niente di sbagliato e si limita ad accettare la situazione così com’è, e chi ipotizza l’esistenza di una vera e propria matrix (ispirandosi al film “The Matrix” del 1999) a livello planetario che renderebbe la Terra una sorta di prigione per le anime.
Noi non vogliamo addentraci in queste teorie poiché non possediamo alcuna certezza a riguardo, ma consigliamo al lettore di fare le proprie ricerche e di mantenere la mente sempre aperta. Per partire col piede giusto, consigliamo questo nostro articolo intitolato “L’enigma delle esperienze di pre-morte: Interpretazioni scientifiche e spirituali“.
Quella che segue è una nostra personale rivisitazione dei concetti di risveglio spirituale e Moksha, ispirata sia alle antiche filosofie orientali che alla tradizione filosofica occidentale, con particolare riferimento alla scuola platonica e a quella stoica.
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Le 14 fasi di liberazione spirituale
1. IGNORANZA (o stato di incoscienza)
L’ignoranza è una condizione in cui l’individuo non è consapevole della sua vera natura o della realtà ultima. Le anime che si incarnano sulla Terra e perdono ogni ricordo precedente si trovano inizialmente in questa situazione. Nell’induismo, tale fase viene definita Avidya, ovvero l’ignoranza fondamentale che ci tiene legati al ciclo di nascita e morte (Samsara). L’ignoranza produce una visione distorta e inconsapevole della realtà, nella quale il vero sé viene confuso con il corpo e la mente.
L’antico filosofo greco Platone utilizzava la metafora della caverna per illustrare come gli esseri umani possano vivere perennemente in uno stato di illusione, percependo solo le ombre della realtà. La fuoriuscita da questo stato di beata ignoranza richiede un processo di introspezione e ricerca, il quale nasce generalmente in seguito ad un trauma che sconvolge le certezze date per scontate fino a quel momento.
Il maestro di Platone, Socrate, sosteneva che tutte le azioni malvagie derivano dall’ignoranza, affermando che nessuno sceglie volontariamente di fare il male qualora conosca veramente ciò che è bene. Egli riteneva che le persone commettessero atti dannosi poiché li percepivano erroneamente come vantaggiosi, ponendo l’accento sull’importanza della conoscenza nel prendere decisioni di carattere morale. Pertanto, l’essenza del male non risiede nelle azioni in sé, ma nell’ignoranza che conduce gli individui a valutare in modo errato le loro scelte.
2. SENSORIALITÀ (o percezione passiva)
La sensorialità implica una connessione superficiale con il mondo esteriore attraverso l’utilizzo dei cinque sensi, ma in assenza di un’elaborazione attiva da parte della mente razionale. In questa fase, l’individuo vive in modo reattivo piuttosto che proattivo; le esperienze sensoriali sono accolte senza riflessione critica, passivamente, come accade ad un neonato che sperimenta per la prima volta le sensazioni corporee dopo la separazione dal ventre materno.
Chi resta particolarmente ancorato alla fase sensoriale manifesta generalmente un forte attaccamento al corpo fisico e ai suoi bisogni, concentrandosi sulle sensazioni fisiche e, più in generale, sul godimento che ne deriva. Il corpo è una prigione per l’anima, pertanto identificarsi con esso rende assolutamente impossibile l’evoluzione in ambito spirituale.
Nell’induismo, questo momento può essere interpretato come un attaccamento ai sensi (Indriya), nel quale le persone cercano soddisfazione nei piaceri temporanei piuttosto che nella realizzazione interiore. Platone avrebbe descritto questo stato come un’esistenza prigioniera delle illusioni sensoriali, sottolineando la necessità di elevare la propria anima verso la contemplazione del mondo delle idee (Iperuranio) per poter così accedere a verità più elevate.
3. PAURA (o senso di impotenza)
La paura è una delle emozioni più primordiali e può essere vista come un ostacolo significativo alla crescita spirituale. Nella filosofia induista, la paura è spesso associata all’attaccamento al mondo materiale e alla nostra identificazione con l’ego. Questa fase rappresenta un momento in cui l’individuo si sente impotente di fronte alle sfide della vita, incapace di vedere oltre le proprie limitazioni e non riuscendo a governare le proprie emozioni. La paura nasce fondamentalmente dall’ignoranza, in quanto si teme principalmente ciò che non si conosce. Sensazioni fisiche e percezioni sensoriali possono facilmente essere interpretate dalla mente inconsapevole come segnali di pericolo, generando comportamenti irrazionali e addirittura controproducenti. Questo tipo di reazione è tipico degli animali e dei bambini piccoli.
Nell’antica Grecia, filosofi come Socrate parlavano dell’importanza del riconoscimento delle proprie paure come primo passo verso la saggezza. La consapevolezza della propria vulnerabilità può invogliare ad intraprendere una ricerca più profonda del significato della vita, spingendo l’individuo a interrogarsi su ciò che realmente conta e su quanto le nostre percezioni, spesso irrazionali, governino le nostre scelte.
4. CONSOLAZIONE (o auto-inganno)
La consolazione rappresenta una fase in cui l’individuo cerca conforto nelle illusioni e nelle spiegazioni consolatorie piuttosto che affrontare in maniera diretta le dure verità che la vita gli pone dinanzi. Questo auto-inganno può manifestarsi attraverso varie forme di dipendenza o attaccamento a idee positive ma irrealistiche riguardanti il funzionamento della società e della politica, delle relazioni interpersonali, della vita e così via. Lo stesso principio vale per la dipendenza dagli oggetti, dalle abitudini e dai vizi. Di fatto tutte queste cose non sono altro che distrazioni, la cui funzione è quella di spostare l’attenzione dall’interno verso l’esterno.
Vale la pena notare che il potere approfitta notevolmente di questa innata attitudine umana; esso asseconda il bisogno di sicurezza e protezione insito in ognuno di noi proponendoci narrazioni della realtà particolarmente semplicistiche, in modo tale che non approdiamo mai alla fase dell’incertezza e della messa in discussione, in quanto è proprio dal dubbio che inizia il processo di trasformazione interiore.
Nella filosofia orientale, questo stadio può essere descritto come un rifugio temporaneo dalla sofferenza; tuttavia, esso non porta a una vera liberazione interiore. I filosofi greci come Epicuro sostenevano che la ricerca del piacere e delle facili gratificazioni doveva essere controbilanciata dalla saggezza e dalla moderazione per evitare il dolore derivante dall’attaccamento ai beni materiali o alle illusioni terrene. Meglio una dolce bugia o una dura verità? Nel breve termine vince sicuramente la prima, ma l’anima non si fa ingannare per sempre.
5. INCERTEZZA (o insoddisfazione)
L’incertezza emerge quando una persona comincia a rendersi conto che le esperienze sensoriali non portano alla vera felicità o ad una soddisfazione duratura. Questa fase segna un punto critico nel cammino verso la liberazione spirituale; l’insoddisfazione diventa un catalizzatore per la ricerca interiore. La ricerca spirituale nasce sempre da una forma di disagio o sofferenza, mai da una vita confortevole e priva di scossoni.
Alcuni guru spirituali moderni, nel tentativo di “vendere” la spiritualità a un pubblico più vasto possibile, propugnano l’idea che il mondo sia perfetto così com’è, la vita pure, e che quindi non ci sia bisogno di soffrire e lottare per raggiungere uno stato di maggiore consapevolezza e felicità. L’inganno sta nel mescolare il concetto di felicità con quello di spiritualità. Divenire più spirituali e consapevoli non significa sentirsi più felici nel mondo; al contrario, significa prendere le distanze da esso.
In termini induisti, questo stadio potrebbe rappresentare il primo passo verso il discernimento (Indriya), dove si comincia a comprendere la differenza tra ciò che è reale e ciò che è illusorio. I filosofi greci come Aristotele avrebbero sostenuto che l’insoddisfazione può spingere gli individui ad inseguire virtù più elevate e scopi più nobili nella propria vita. Si tratta di un momento delicato, molti infatti lo interrompono immediatamente regredendo alla fase della consolazione.
6. DUBBIO (o messa in discussione)
Il dubbio rappresenta una tappa fondamentale nel lungo processo di liberazione spirituale. In questa fase, l’individuo comincia a mettere in discussione le proprie credenze e convinzioni precedenti. L’atto della messa in discussione è essenziale per il progresso della consapevolezza, poiché consente all’individuo di esaminare criticamente le idee che ha accettato passivamente fino a quel momento.
Dal punto di vista induista, il dubbio può essere visto come un passo necessario verso la discriminazione (Viveka), uno dei principi fondamentali della filosofia Advaita Vedanta. La discriminazione aiuta a discernere tra ciò che è reale e ciò che è illusorio (Maya). Allo stesso modo, il filosofo greco Socrate enfatizzava l’importanza del dubbio attraverso il suo metodo socratico, il quale incoraggiava gli interlocutori a mettere in discussione le loro convinzioni per arrivare a una comprensione più profonda della verità.
La fase del dubbio rappresenta il primo vero scossone emotivo e coscienziale della persona comune che inizia, ancora con molta fatica, a percepirsi non più come uno dei tanti membri del gregge umano, bensì come un’entità dotata di una sua specifica individualità.
7. RICERCA (o attivazione della coscienza)
La fase di ricerca segna il primo intervento attivo della coscienza all’interno dell’esperienza individuale. La persona si impegna attivamente nella ricerca della verità e di una comprensione superiore. Questa tappa richiede uno sforzo consapevole non indifferente, e può includere la scoperta e l’esplorazione di alcune pratiche spirituali come la meditazione e lo yoga, nonché il desiderio di approfondire i testi sacri.
In contesto induista, la ricerca può essere vista attraverso il prisma del “Jnana Yoga”, il sentiero della conoscenza e della saggezza. I praticanti cercano di comprendere la vera natura del Sé (Atman) e la sua relazione con l’Assoluto (Brahman). Nella filosofia greca, Platone parlava dell’importanza della ricerca del “bene” attraverso l’educazione filosofica; il filosofo deve ricercare costantemente la verità oltre le apparenze sensoriali ed essere guidato da una bussola morale incorruttibile.
Se fino a poco prima l’individuo non possedeva una vera e propria coscienza soggettiva, preferendo piuttosto seguire acriticamente il sentire comune, ora comincia a sperimentare i primi tentativi di connessione con la coscienza universale, sebbene in maniera ancora non completamente consapevole.
8. MERAVIGLIA (o rivisitazione della realtà)
La meraviglia segna un punto decisivo nel percorso spirituale: l’individuo rivisita la realtà con occhi nuovi dopo aver attraversato tutte le fasi precedenti. Questa reinterpretazione del mondo sfocia in una visione rinnovata della realtà; ogni esperienza viene vissuta con stupore e gratitudine, come una sorta di rinascita intellettuale.
Nella filosofia greca, Platone descriveva il mondo delle Idee come un qualcosa da contemplare con meraviglia; solo attraverso questa contemplazione diviene possibile avvicinarsi alla verità ultima. Possiamo paragonare questa fase alla sensazione sperimentata, da bambini, quando ricevevamo in regalo un giocattolo nuovo e affascinante tutto da scoprire. L’entusiasmo che ne deriva apre le porte ad un sentire più profondo ed autentico tipicamente connesso alle dimensioni immateriali del nostro essere.
Va aggiunto che tale fase, generalmente, non dura a lungo. L’eccitazione iniziale si trasforma presto in qualcosa di diverso; può infatti regredire nuovamente alla fase di incertezza o a quella del dubbio, oppure evolvere verso quella del disincanto.
9. DISINCANTO (o risveglio dell’anima)
Il disincanto rappresenta un primo e significativo risveglio dell’anima; qui l’individuo comincia a sbirciare oltre il velo di Maya e riconosce per la prima volta la propria essenza divina, pur non essendo ancora del tutto consapevole delle eventuali implicazioni. Questo risveglio coincide con lo sviluppo di una nuova forma di realismo, nella quale vengono fortemente ridimensionate le proprie aspettative terrene, siano esse di stampo lavorativo, economico o relazionale.
Aristotele sottolineava l’importanza dell’autorealizzazione nel raggiungimento di una felicità autentica; per poter trovare la propria strada bisogna prima stabilire quale sia il proprio posto nel mondo e quali obiettivi si vogliano perseguire. La fase del disincanto potrebbe essere metaforicamente dipinta come il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. L’entusiasmo e le speranze giovanili devono necessariamente essere ridimensionate ad un certo punto, perché la società vuole che ognuno scelga un ruolo preciso e lo porti avanti.
Alcune persone si fermano qui e restano in questa fase per il resto della loro vita. Altre regrediscono alla fase della consolazione e dell’auto-inganno per non dover ammettere a se stesse che hanno definitivamente rinunciato ai propri sogni e alle proprie speranze giovanili. Altre ancora trasformano questa forma di delusione personale in qualcosa di potenzialmente utile per la collettività, entrando così nella fase dell’impegno sociale.
10. IMPEGNO SOCIALE (o aiuto interessato)
L’impegno sociale emerge come una manifestazione pratica della necessità di dare un senso più elevato alla propria esistenza. Una volta raggiunta una maggiore consapevolezza del proprio essere e dell’interconnessione con gli altri, l’individuo si sente spinto ad agire per il bene comune. Questo concetto è fortemente radicato nella filosofia induista attraverso il principio del Dharma, che implica doveri etici e responsabilità verso la comunità.
In tale contesto, l’impegno sociale non è visto soltanto come un atto altruistico, ma anche come un’espressione naturale della propria realizzazione spirituale. Anche Aristotele trattò l’importanza della virtù civica nel suo pensiero etico; egli sosteneva che la felicità individuale fosse intrinsecamente legata al benessere della polis (città-stato). L’impegno sociale diventa quindi un modo per manifestare la propria crescita spirituale e contribuire al progresso collettivo, avvicinandosi in questo modo alla condizione di eudaimonia, ovvero una forma di felicità correlata all’esercizio della virtù e alla ricerca del bene.
Ad un livello ancora più profondo e metafisico, essendo ogni cosa collegata a tutte le altre, e non sussistendo alcun tipo di separazione fra me e gli altri, si può dedurre che fare del bene al prossimo sia semplicemente un’illusione. Io e gli altri siamo una cosa sola, dunque che senso può avere aiutare i miei simili? In realtà sto aiutando me stesso, ma essendo ancora identificato con la mia mente, tendo a percepirmi come separato dagli altri. Dal punto di vista puramente spirituale, se io evolvo, tutta l’umanità evolve insieme a me. Lavorando su me stesso sto già aiutando l’umanità intera.
Moltissimi guru spirituali, o sedicenti tali, si trovano esattamente in questa fase. Il semplice fatto che si autodefiniscano “guide spirituali” o peggio ancora “leader spirituali”, dimostra che sono ancora vittime dell’illusione di poter aiutare gli altri e di ottenere qualcosa in cambio.
11. DISILLUSIONE (o accettazione rassegnata)
Cercare di cambiare (o aiutare) gli altri conduce inevitabilmente alla fase della disillusione. Non tutti passano attraverso questa fase, e non tutti vi restano per la stessa quantità di tempo. Certuni saltano direttamente alla fase del distacco, mentre altri restano bloccati nella fase precedente (impegno sociale) per il resto della loro vita.
Il momento della disillusione può essere doloroso, ma è anche liberatorio. L’accettazione rassegnata implica una resa alle circostanze della vita così come sono, senza cercare di forzarle o cambiarle. La persona disillusa, purché sia giunta a questa fase dopo essere passata attraverso il dubbio e la meraviglia, comprende che la società non si cambia e che nemmeno le persone si possono cambiare. Solo chi vuole cambiare, può farlo. Tutti gli altri faranno un percorso diverso e nessuno potrà mai instillare in loro la consapevolezza dall’esterno. Si evolve soltanto se si vuole farlo; volontà è la parola chiave.
I pensatori stoici dell’antica Grecia come Epitteto sostenevano l’importanza dell’accettazione degli eventi esterni come parte della vita umana; ciò che conta è la nostra reazione interiore a questi eventi, e l’interpretazione che ne diamo, non tanto gli eventi in sé. Tutto è relativo al punto di vista dell’osservatore e non esistono verità indiscutibili nel mondo illusorio della materia.
La fase della disillusione rappresenta il primo punto di non ritorno dell’evoluzione spirituale. Chi giunge fino alla decima tappa può ancora retrocedere alle fasi precedenti, mentre l’anima disillusa difficilmente può tornare a far finta di non sapere.
12. DISTACCO (o silenziamento della mente)
Il distacco rappresenta un secondo e cruciale momento di risveglio dell’anima, dopo quello del disincanto. Non deve essere interpretato come indifferenza o apatia nei confronti del mondo; piuttosto, implica un silenziamento della mente e una riduzione dell’attaccamento alle cose materiali e ai desideri egoistici. Nella tradizione induista, questo distacco è solitamente associato alla pratica dello yoga e alla meditazione, strumenti che aiutano a calmare le turbolenze mentali.
Dal punto di vista dello Stoicismo il distacco è visto come una forma di saggezza. Epicuro, dal canto suo, insegnava che il piacere più alto derivava dalla capacità di liberarsi dei desideri superflui. Gli stoici enfatizzavano inoltre l’importanza di accettare serenamente tutto ciò che non possiamo controllare. Il distacco permette all’individuo di osservare la vita senza esserne sopraffatto, aprendo le porte ad una forma di coscienza più elevata.
La mente produce continui bisogni, speranze e desideri. Essa viene influenzata dal mondo circostante attraverso le percezioni sensoriali, ma anche e soprattutto attraverso l’acquisizione di idee e credenze inculcate dall’esterno. In realtà il mondo esteriore è una proiezione di quello interiore, e menti deboli e poco consapevoli non potranno fare altro che generare una società altrettanto superficiale e materialista.
13. INDIFFERENZA CONSAPEVOLE (o coscienza spirituale)
L’indifferenza consapevole rappresenta uno stato avanzato di coscienza spirituale in cui l’individuo riconosce la transitorietà delle esperienze umane senza esserne influenzato emotivamente. Questa condizione è generalmente descritta nelle scritture vediche come uno stato di equanimità (Samatva), nel quale si sperimenta una profonda pace interiore indipendentemente dalle circostanze esterne.
Filosoficamente parlando, questa indifferenza consapevole può essere paragonata all’ideale stoico di apatheia – non confondere le emozioni con la ragione – in cui si sviluppa una resilienza emotiva attraverso la comprensione razionale della vita. In questo stato elevato di coscienza, l’individuo vive in armonia con il flusso dell’esistenza senza attaccamenti né avversioni.
Un solo elemento distingue l’indifferenza consapevole dal menefreghismo: la consapevolezza. Potrà apparire come una distinzione scontata e superflua, ma a nostro parere non lo è affatto. I menefreghisti sono di gran lunga più numerosi degli indifferenti consapevoli, perciò bisogna fare attenzione a non confonderli. La differenza che intercorre fra le due categorie è la stessa che induce due persone distinte ad affermare che studiare non serve a niente. Solo che mentre la prima persona ha studiato per una vita intera prima di fare tale affermazione, la seconda non ha mai aperto un libro.
14. LIBERAZIONE INTERIORE (o Moksha)
La liberazione interiore, o Moksha, rappresenta il culmine del percorso spirituale nell’induismo e in molte tradizioni filosofiche orientali. Si tratta del terzo ed ultimo (non ne se siamo certi) momento di risveglio spirituale e coincide con l’interruzione del meccanismo della reincarnazione. Moksha è inteso come la liberazione dall’illusione del mondo materiale e dalla ciclicità della vita e della morte (Samsara). Filosoficamente, si può considerare come un ritorno all’unità con il divino, dove l’individuo riconosce la sua vera natura come Atman (l’anima) che è identica al Brahman (l’assoluto).
Nella filosofia greca, pensatori come Platone hanno esplorato concetti simili attraverso l’idea di una realtà superiore rispetto a quella sensoriale. Platone, nella sua allegoria della caverna, descrive il processo di liberazione dalla schiavitù delle illusioni sensoriali per giungere alla conoscenza del vero bene, metaforicamente rappresentato come l’uscita da una grotta oscura e l’incontro con il sole luminoso.
La liberazione interiore, o spirituale, si realizza nel momento stesso in cui si fa propria questa consapevolezza. Non appena si diviene coscienti del fatto che il mondo terreno non ha più nulla da offrirci, reincarnarsi non è più necessario. Ciò che accadrà dopo l’abbandono del corpo non si può sapere con certezza, ma è legittimo supporre che dipenda completamente dalla volontà individuale e che nessuna forma di inganno o matrix possa più fare presa sull’anima risvegliata e liberata.
Ciò che è certo, è che una volta raggiunto questo stato di coscienza si è spiritualmente pronti per affrontare l’abbandono del corpo e del mondo fisico. Se davvero esistono trappole e inganni finalizzati a riportare le anime indietro sul pianeta Terra, essi non avranno più alcun effetto sull’anima liberata. Una volta che la dualità è stata trascesa e che l’attaccamento al mondo materiale si è dissolto, si configura una nuova forma di libero arbitrio, questa volta non più di tipo mentale, bensì spirituale.
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